Da uno dei tanti siti che si proclamano antirazzisti e propinano notizie false e tendenziose, pur di propagandare contro la civile protesta dei cittadini operesi, emerge la vera natura dell'attività di Laura, la volontaria che si reca al campo tutti i giorni.
“Pensa che il Comune non vuole neanche rendere noto che mi paga per fare da tramite”, dice. “Non vuole farli incazzare ulteriormente.” Punta un dito poco oltre il recinto, verso il presidio.
In questo passaggio dell'intervista il cui titolo è scippato ad un editoriale del Manifesto "OPERA AL NERO" Laura ammette quello che il Comune di Opera ha sempre negato, ossia che qualcuno prendesse soldi per svolgere attività all'interno del campo.
Questa è solo una delle tante falsità propinate alla città dalle istituzioni e l'articolo su www.nazioneindiana.it è a sua volta, per la quantità di menzogne che racchiude, solo un esempio di quanto bugiardi siano quelli che puntano il dito contro gli altri senza farsi esami di coscenza.
Opera al nero
di Giorgio Fontana
Per Laura e Luca e gli altri
“Quando l’odio degli uomini non comporta alcun rischio, la loro stupidità si convince presto, i motivi arrivano da soli.” Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte
Il paesaggio è quello che conosci da una vita. Campi brumosi, file d’alberi secchi, palazzi color ribes, un paio di gru, e la tangenziale ovest come un fiume in piena. Il campo le sorge quasi a fianco, all’imbocco del paese. Il cartello OPERA ti dà il benvenuto. È un pomeriggio di fine gennaio. Sai che ne hanno già parlato i telegiornali, a tempo debito: ma questo non è un motivo per smettere d’interrogarsi. Come se le cose possano finire, una volta trasformate in “notizie”. Come se non ci fossero anche tempi indebiti.
Passi davanti al presidio. Davanti agli striscioni VIA I ROM e DOPO I POOH…I NOMADI. La gente parla e ti guarda sdegnata. Poi il primo che ti viene incontro, dopo cinquanta metri di fango, è un bambino di sette anni. Si chiama Andrej. Ti vede con il bloc-notes in mano e cerca subito di sbirciare, ma è deluso quando nota che non hai ancora scritto nulla. Ha un pallone sgonfio in mano. “Abbiamo una squadra, qui”, dice. “Siamo già sette o otto. E abbiamo scritto una lettera all’Inter.” Giocano un po’ con tutti. Qualcuno è un po’ scarso, però vabbè. Ti chiede se più tardi vuoi fare due tiri.
Tu sorridi e dici okay, poi alzi lo sguardo e cominci a registrare dove ti trovi. Un terreno fangoso e ghiaioso. Quindici tende di media grandezza. Bidoni della spazzatura. Persino qualche estintore. Ma un unico bagno, con due docce e sei gabinetti. Solo due fuochi per cucinare. Niente lavatrice. Un rubinetto all’aperto, con acqua fredda, per lavare i piatti. Quasi ogni giorno la corrente salta. Non c’è illuminazione notturna, a parte due grandi fari.
Sullo sfondo, una rotonda e i cieli vuoti del sud milanese.
Una settantina di persone vivono qui al momento. Circa la metà sono bambini.
La storia comincia con uno sgombero il 14 dicembre in Via Ripamonti. Tutti rumeni, e tutti dotati di regolare permesso di soggiorno. Gente senza precedenti penali, gente normale che lavorava. Il campo stesso è regolare, secondo accordi con la Provincia e il Comune di Opera, e viene gestito dalla Casa della Carità Angelo Abriani. L’organizzazione sta puntando all’idea coerente di fare una serie di campi più piccoli, meglio gestibili, per evitare babilonie come il Triboniano.
Laura ha ventiquattro anni ed è il tramite del Comune. Le chiedi che attività stanno portando avanti. Lei ti racconta di come i nomadi tengano alle loro tende, di come siano linde e ben conservate. Ti racconta dei corsi d’italiano per gli adulti. Ti spiega dei concerti e delle partite di calcio che hanno organizzato. E dello sportello per il lavoro che il Comitato Festa dei Popoli, di cui fa parte, sta pensando di attivare.
Ti porta a sentire una lezione di canto a cura della Comunità S. Egidio. Una ragazza suona la chitarra e sette bimbi in cerchio cantano Alla scuola della pace, puoi venire se vuoi, puoi venire puoi ballare… Hanno le facce contente ma un po’ stanche. Sotto un rettangolo di neon, fanno merenda con torta e succhi di frutta in cartone. Mentre scrivi vedi l’alito dal freddo, e per terra c’è solo terra. Laura ti indica uno striscione colorato: IL PAESE DELL’ARCOBALENO / SCUOLA DELLA PACE.
Per un po’ dimentichi quello che c’è fuori. Dimentichi il presidio, le gru, il fango. I bambini ti guardano e sorridono. Tu sorridi. Laura sorride.
Poi però vi sedete su una panchina bianca, in mezzo al prato. Tu riapri il bloc-notes. Laura si accende una sigaretta e comincia a raccontare ciò che le pesa di più. Perché tutto quello che stanno facendo è bello e difficile, ma c’è chi lo sta rendendo ancora più difficile. La parte oscura della storia. L’intolleranza dei suoi concittadini.
“Pensa che il Comune non vuole neanche rendere noto che mi paga per fare da tramite”, dice. “Non vuole farli incazzare ulteriormente.” Punta un dito poco oltre il recinto, verso il presidio. Già, il presidio. È lì dal 20 dicembre, come misura preventiva. Le tende sarebbero arrivate solo il giorno dopo. E durante il consiglio comunale, ecco la storia nota, la notizia: le tende vengono bruciate (molte contenevano già vestiti e beni personali) e i resti portati via come trofei.Per la prima settimana, picchettano anche ragazzi di Forza Nuova e alcuni ultras dell’Inter: si fa girare la voce di stare attenti, perché “Qui c’è gente coi coltelli.” Col tempo, gran parte della popolazione viene fomentata.
Adesso, dopo un mese, il presidio sembra un luogo d’aggregazione. C’è un baracchino che vende panini e bibite. Fornisce i panini anche alla polizia, con la quale ormai ha fraternizzato. “A volte restano qui tutta la notte”, dice Laura. “Fin dai primi giorni la polizia li ha invitati a restare, per arginare un ulteriore afflusso. Afflusso che comunque non ci sarebbe mai stato, per accordi presi in precedenza con la comunità.”Poi lei ti racconta dei fatti e tu scrivi meccanicamente.
Da questo momento in poi, sei solo tu e la tua penna.
Il 23 dicembre alcuni ragazzi hanno tolto tre striscioni razzisti dal presidio. Uno di loro è stato fermato dalla polizia e trattenuto fino alle 4 del mattino, poi convocato in questura dalle 8.30 alle 13. Gli sono stati chiesti i nomi dei compagni e le targhe delle auto. “Qual è il mio reato?”, ha domandato. “Nessun reato”, gli è stato risposto, “ma noi dobbiamo essere informati dei fatti.”
La notte successiva – la notte di Natale – è stato stracciato dai picchettanti il controstriscione NO AL RAZZISMO, SI ALL’ACCOGLIENZA. Sotto gli occhi della DIGOS, che non muoveva un muscolo.
Tu scrivi.
Il 15 gennaio è stato organizzato un concerto con musicisti rom. Nel frattempo un corteo di presidianti ha cominciato a inveire. I ragazzi dell’organizzazione sono dovuti restare nel campo fino alle 22, per evitare ulteriori rappresaglie. “Quando siamo usciti”, racconta Laura, “ci hanno urlato SPERIAMO CHE I ROM VI UCCIDANO TUTTI!” Alcuni di loro sono dovuti scappare. Alcuni sono stati inseguiti.
Il 19 gennaio c’è un corteo con Borghezio. I nomadi vengono evacuati alla Casa della Carità, per motivi di sicurezza. Il dispiegamento delle forze dell’ordine è tale da spaventare i pochi del controcorteo.
Tu scrivi.
Qualche giorno fa Laura è uscita dal campo alle 20 e un tizio le ha detto: “Matrimonio, eh?” Lei ha scosso la testa: “Scusi?”, ha chiesto. “Massì”, ha fatto il tizio ridendo. “Per forza. Sei vai lì dentro vuol dire che vai a cercarti un manico da scopare.”Un ragazzo rom, trattenuto fino a tardi in Casa della Carità, ha preferito entrare dal lato opposto del campo – una bella camminata – per evitare le minacce del picchetto. Ti fidi a passare di qui? Ti fidi davvero?
Tu scrivi.
Di fronte a tutto questo, di fronte a un mese di ingiustizia e contraddizioni, Laura ha chiesto l’atto pubblico del presidio. Risposta: non esiste. Non esiste? No, non esiste. Trenta giorni di picchettamento senza alcun atto pubblico.“Ma al di là di tutto, la cosa peggiore è forse lo stato d’ignoranza della gente”, dice Laura. “E loro giocano su questo. Sui pregiudizi più banali, sulla mala informazione. Sulla presunta delinquenza dei rom, che sono tutti uguali, che rubano al mercato e vivono di niente… Capisci? Se ci crede mia nonna, ci può anche stare. Ma non che ci creda uno della mia età.”
“È ovvio che campi come il Triboniano siano posti allucinanti”, prosegue. “Ma è la solita vecchia equazione. Più caos, più emarginazione, più povertà, più delinquenza. Non c’è nessuna politica di integrazione a monte. C’è solo l’idea della tolleranza zero.”Tu scrivi.Laura scuote la testa e fuma una sigaretta dietro l’altra.
Alla fine vieni presentato a L. – un rom di cinquant’anni, grassoccio, gioviale. È uno di quelli che parlano meglio l’italiano. Scambiate due chiacchiere mentre cuoce del maiale su una piastra. Manda un buon odore, un odore selvatico. Le figure e i gesti si sfanno nel fumo.
“In cinque anni, mai è successa una cosa simile”, dice. “In Via Ripamonti nessuno si lamentava. Se dovevano sgomberare un campo di delinquenti, avevano ragione.” Rovescia un pezzo di maiale. “Io capisco gente. Qualcuni sono buoni, qualcuni cattivi: come per tutti. Perché però noi tutti cattivi? Secondo me hanno sgomberato la comunità sbagliata”, dice. “Volevano prendere altri, gente cattiva. Invece hanno preso noi, che è tutta gente che lavora.” Lo ammette così, alzando le spalle, sorridendo. Il maiale sta diventando quasi nero.“Mi sta dicendo che vi hanno preso per sbaglio?”
“Non sono sicuro. Io penso di sì.”
Tu non dici niente.
È troppo.
Ti rendi conto che è da quando sei arrivato qui che non hai detto nulla. Scrivi anche questo. Poi L. si prepara per la cena, Laura ti lascia solo un istante, i bambini si diradano e vanno a giocare a pallone accanto alla luce. Passa una ragazzina in bici con le ciabatte e i capelli fradici.
Non hai niente da dire, e allora scrivi.Scrivi che qui adulti e bambini sono ghettizzati. Scrivi che il degrado psicologico e sociale di questa gente è totale. Scrivi che è domenica pomeriggio e loro non possono nemmeno entrare in un bar, come qualunque essere umano. Scrivi questo. Scrivi che stai assistendo a uno stato di segregazione. Ora. Nel 2007. A cinque chilometri da Milano. Senza alcuna giustificazione legale. Senza che le forze dell’ordine difendano delle persone con regolare permesso di soggiorno. Stai assistendo a tutto questo. Un giorno di gennaio.
A cosa pensi?
A un sacco di cose. A quando stavi in Francia, ai discorsi dei magrebini che conoscevi, all’assurdità di un’espressione come immigrato di terza generazione. Pensi al Porrajmos e ai buchi nei libri di storia. Pensi a questo schifo di cielo grigio.Ma soprattutto, pensi che non dovresti mai smettere di interrogarti. Perché le “notizie” sono soltanto segnali. Punte di iceberg che nascondono blocchi enormi di paure, reazioni inconcepibili. Ti arriva alle orecchie che dieci giorni fa hanno sgomberato un altro campo a Chiaravalle. Le notizie sono squarci di un tessuto che è fatto d’ignoranza e odio.
Tu pensi.
Ma quei bambini là, che giocano a pallone sotto il campo e i lampioni e le gru, dieci o undici anni al massimo, come cresceranno? Loro, cosa cazzo penseranno di noi?
“Se gli chiedi di disegnare il futuro”, ti ha detto Laura stringendoti la mano, “disegnano case e non tende, automobili e non biciclette scassate. Vogliono solo una vita normale. Nient’altro. Soltanto una vita normale.”